25 novembre 2025 – Giornata violenza sulle donne – I.C. Antonio Gramsci – Pavona (Albano L.)
Prima di entrare in argomento, saluto e ringrazio per la loro partecipazione i ragazzi presenti e quelli collegati on line, perché, come ho più volte detto, sono i protagonisti di incontri come questo di oggi.
Saluto poi il Commissario prefettiziodel Comune di Albano Laziale, Filippo Santarelli, che ci onora con la sua presenza .
Naturalmente, un saluto doveroso va alla padrona di casa, la dirigente dell‘Istituto, Laura Lamanna, alla referente alla legalità, Laura Lanzi e al corpo docente che con il loro impegno hanno contribuito alla realizzazione di questo incontro.
Saluto anche la professoressa Gabriella Sergi, che, anche lei, ci onora della sua presenza.
La dirigente ci ha parlato, con grande competenza, della violenza in generale che è sempre da condannare perché causa dolori e vittime innocenti, perché è rivolta, di solito, nei confronti di soggetti deboli, incapaci di opporre una qualche resistenza non solo sul piano fisico ma anche culturale.
Vorrei, perciò, riconnettermi a quello che diceva la dirigente, parlandovi, brevemente, di alcune donne nei confronti delle quali ci sono state manifestazioni di grave violenza.
Allora, ragazzi cosa rende una persona violenta?
Io penso che la violenza scaturisca dalla mancanza di cultura, da un senso di potere nei confronti della donna che viene tenuta in uno stato di subordinazione. Se ciò non appare possibile, nasce un senso di paura, agitazione, nervosismo, da rabbia: tutti questi stati d’animo possono scatenare un comportamento aggressivo.
Spesso la violenza è il risultato di un senso di impotenza, di “non controllo” di quanto accade.
Questi stati d’animo sono tipici di una persona comune.
Nelle mafie, invece, oltre ad alcuni stati d’animo che ho elencato, si aggiungono alcuni altri comportamenti particolari.
Infatti, nelle mafie non c’è libertà, ci sono riti e regole che vanno rispettate.
C’è un capo che decide per tutti e che ha potere di morte su tutti quelli che hanno accettato di far parte della cosiddetta “famiglia mafiosa”.
I giovani che vogliono far parte di queste cosiddette famiglie (ma non lo sono!) sono usati come “vedette”, nella piazze di spaccio o come corrieri di droga per piccoli compensi.
Il grosso dei compensi rimane sempre nelle tasche dei capi per fare la bella vita, per investire, riciclando il denaro sporco, nell’acquisto di aziende e per entrare così negli affari e nel mondo della finanza.
E’, ora, giunto il momento che vi parli di alcune donne vittime di violenza mafiosa.
Vi parlo di Lia Pipitone vittima di “Cosa nostra”, di Gelsomina Verde (detta Mina), vittima della “Camorra”, di Lea Garofolo, vittima della ‘Ndgrangheta” (anni’70), .
Queste tre donne fanno parte di un elenco di 1081 vittime innocenti delle mafie, elenco che viene aggiornato da “Libera”, da più di trenta anni.
Questo elenco è importante perché non si deve perdere il loro ricordo e la loro memoria. Il 21 marzo di ogni anno, queste vittime sono ricordate in una città diversa del nostro Paese.
Vorrei, poi, in conclusione parlarvi di Franca Viola che il 26 dicembre 1965 (quando aveva solo diciassette anni) subì un rapimento con stupro, da parte di un giovane legato ad ambienti mafiosi e non accettò il matrimonio riparatore.
Lia Pipitone
Rosaria Pipitone (da tutti detta Lia) è nata a Palermo il 16 agosto 1958.
Suo padre non era un uomo qualunque; era un boss di “cosa nostra” del quartiere popolare dell’ “Acquasanta” di Palermo, era uomo di Totò Riina, lo stragista, capo indiscusso dei Corleonesi .
Quando aveva dieci anni perse la madre; sicché venne cresciuta dal padre e da una zia.
Con il passare degli anni, si rende conto di cosa era veramente suo padre. Ha inizio così la sua ribellione, a partire dalla scelta della scuola da frequentare.
Desidera frequentare il liceo artistico per la sua passione per l’arte, la bellezza, i colori, il disegno.
Ha una grande curiosità perché tenta di scoprire sempre cose nuove. Vuole inoltre essere una ragazza come le altre.
Grazie alla sua testardaggine riesce a frequentare il liceo artistico, anche se suo padre si comporta come un padre-padrone e pone continuamente dei limiti alla sua libertà di scelta.
Si innamora di Gero (un suo compagno di scuola).
Per non sottostare al padre, fugge (classica “fuitina”) con il fidanzato. I due si sposano, nonostante vengano minacciati da alcuni boss locali.
Comunque, al matrimonio il padre non partecipa.
Dopo la nascita di un figlio (Alessio), su insistenza del padre si trasferiscono a Palermo.
Il padre trova un posto di lavoro per il genero in una società di proprietà dei cugini Salvo, veri e propri “colletti bianchi” che svolgono l’attività di esattori dei tributi riscossi in Sicilia.
Lia non si dà pace; è nata per la libertà, non riesce a rispettare le regole imposte dal padre e trova il coraggio di contestarlo pubblicamente.
A poco, a poco rompe tutte le regole e i riti di “cosa nostra”. L’amore, però, fra Lia e Gero finisce: i due si separano.
Questa separazione costituisce un vero e proprio disonore per il padre, boss di “cosa nostra”. Il padre arriva a dire: è meglio una figlia morta che una figlia separata.
Il 23 settembre del 1983, Lia, appena ventiquattrenne, viene uccisa in un negozio di Palermo; due uomini entrano nel negozio e facendo finta di fare una rapina, le sperano a bruciapelo, sparando cinque colpi di pistola alle gambe e al petto.
Non si tratta di una rapina, ma di una vera e propria esecuzione.
Il giorno successivo, uno degli esecutori del delitto, Simone Di Trapani il migliore amico di Lia viene trovato morto sotto il balcone di casa sua: la sua morte appare come un suicidio perché viene ritrovato un bigliettino nel quale è scritto di suo pugno: mi uccido per amore.
Successivamente, come testimoniato dal collaboratore di giustizia Angelo Fontana, si scopre che si è trattato di una messinscena, perché la morte di Simone è un vero e proprio assassinio compiuto da due killer di “cosa nostra”.
Altri collaboratori di giustizia dichiarano che la morte di Lia è stata ordinata dal padre.
Nel 2012, grazie alla determinazione di Alessio, figlio di Lia, la Procura di Palermo riapre le indagini sull’intera vicenda.
Si giunge, nel giugno 2020, ad una storica Sentenza della Corte di Assise- Appello di Palermo nella quale viene affermato che il comportamento di Lia costituisce una grave offesa non solo al decoro della famiglia del padre, ma dell’intera “cosa nostra”.
Tale offesa suscita la reazione di “cosa nostra “che ordina al padre di Lia di non opporsi alla morte della figlia. Il padre non si sottrae: dunque nell’esecuzione di Lia c’è il suo appoggio.
Per la uccisione di Lia sono condannati Vincenzo Galatolo e Nino Madonia, boss di rilievo di “cosa nostra” come mandanti dell’omicidio.
Gelsomina Verde (detta Mina)
Nasce a Napoli il 5 dicembre 1982. Trascorre la sua infanzia nel quartiere di Scampia.
E’ figlia di una famiglia onesta che svolge lavori precari.
Lavora come operaia in una fabbrica di pelletteria; nel tempo libero prova a riempire la sua esistenza aiutando chi ha bisogno.
Aiuta i bambini nello studio, cerca di dare una mano a quei ragazzi che si sono fatti attrarre dal fascino della camorra, dando il suo contributo perfino a coloro che sono incarcerati.
Si innamora di Gennaro Notturno, un ragazzo caduto nella rete della camorra.
In quel periodo, a partire dall’ottobre del 2004 scoppia una guerra di camorra, passata alla storia come faida di Secondigliano, una vera e propria guerra nell’ambito del clan di Di Lauro con un gruppo che si è dissociato, gruppo denominato “gli Scissionisti”.
Gennaro Notturno passa dalla parte degli scissionisti. Per tale motivo i partecipanti al clan di Di Lauro lo cercano per ucciderlo.
Ritengono che il modo migliore per prenderlo è quello di costringere Gelsomina a rivelare il luogo dove il fidanzato è nascosto.
Per estorcerle le informazioni necessarie su Gennaro Notturno, la torturano, la seviziano per ore, ma Gelsomina, nonostante tutto non può rivelare nulla perché non sa dove il suo fidanzato (ormai diventato ex) si sia rifugiato.
La ritrovano totalmente carbonizzata a bordo di una Fiat 600, comprata dal padre con tanti sacrifici.
L’omicidio così crudele di Gelsomina avviene il 21 novembre 2004, sollevando la generale indignazione.
Successivamente viene arrestato Pietro Esposito con l’accusa di concorso nell’omicidio.
Esposito è un ex carcerato, aiutato da Gelsomina nel periodo in cui si recava in carcere per dare una mano ai ragazzi condannati a farsi una nuova vita.
Lo stesso Esposito fa i nomi di alcuni altri che hanno partecipato all’assassinio. Sono condannati lo stesso Esposito e Ugo de Lucia, un killer spietato al soldo del clan di Di Lauro.
Lea Garofalo
Nasce in Calabria a Policastro (CR) il 24 aprile 1974.
Muore il 24 novembre del 2009.
E’ figlia di un ‘ndranghetista ucciso quando lei è ancora una bambina con pochi mesi di età.
Ucciso, in una fase storica (agli inizi degli anni ’70), in cui comincia una vera e propria guerra di mafia e in cui la mafia calabrese comincia a fare affari e ad espandersi nel nord (in particolare a Milano).
Si innamora, appena giovanissima di un appartenente alla ‘ndrangheta (Carlo Cosco) e si trasferisce (appena diciassettenne) a Milano, dove nasce la figlia di nome Denise.
A Milano è già presente suo fratello Floriano per seguire gli interessi della sua famiglia mafiosa.
Ben presto, si rende conto che la figlia Denise non avrebbe mai potuto avere un futuro degno di questo nome.
Si rende conto anche che la sua vita “era un niente” e che non aveva avuto da nessuno un affetto sincero.
Comprende anche che è nata “nella sfortuna e che sarebbe morta nella sfortuna”.
Così, nel 2002 decide di diventare “testimone di giustizia” e, come tale, racconta ai Giudici le faide interne tra la sua “famiglia” e quella dell’ex compagno Carlo Cosco.
Per questo motivo sia lei che la figlia Denise entrano nel programma di protezione (previsto per i collaboratori di giustizia) e si trasferisce a Campobasso.
Sulla base delle sue rivelazioni sono arrestati in un blitz delle forze di polizia il fratello e il suo ex compagno.
E’, comunque, un periodo difficile nel quale viene considerata non una testimone di giustizia, ma una collaboratrice e le viene accordata, per questo motivo una protezione ridotta.
Nel 2006 le viene revocata la protezione perché considerata non credibile e le sue rivelazioni non attendibili.
Ma Lea non ci sta.
Ricorre al Consiglio di Stato che le da’ ragione e così viene riammessa, nel 2007, alla protezione sempre come collaboratrice di giustizia e non come testimone.
L’anno successivo, nel 2008, c’è l’incontro con “Libera”.
Lea parla con don Ciotti che la mette in contatto con l’avvocato Enza Rando che le consiglia di non incontrarsi con l’ex compagno che la invita a Milano per discutere del futuro della figlia.
Ma Lea non accetta il consiglio. Nel novembre del 2009 va a Milano, con Denise, per vedersi con l’ex compagno.
Il 24 dello stesso mese, l’ex compagno fa in modo di separarla dalla figlia e la invita per un colloquio in un appartamento di piazza Prealpi, dove, alle ore 19,00, viene barbaramente uccisa.
Il suo cadavere viene consegnato a tre dei suoi uomini che la bruciano in un barile di acciaio, contenente 50 litri di acido in un terreno nella frazione di S. Fruttuoso (Monza).
Quando Denise non vede rientrare la madre comincia ad avere il sospetto che, dietro quella sparizione ci sia la mano di suo padre.
Così racconta tutto ai carabinieri e diventa testimone chiave del processo che scoprirà tutta la verità.
Infatti, il 18 ottobre 2010, vengono arrestati Carlo Cosco (l’ex compagno), suo fratello Vito, Massimo Sabatino e alcuni altri, riconosciuti tutti colpevoli e condannati, con Sentenza definitiva all’ergastolo.
Durante il processo si costituiscono parte civile Denise, assistita da Enza Rando, la madre e la sorella di Lea ed il Comune di Milano.
La morte di Lea, avvenuta nel modo tragicamente descritto, colpisce per la sua crudeltà.
I suoi resti riposano nel Cimitero monumentale di Milano; sono deposti lì per volontà del Comune, che ha indicato Lea come modello di coraggio e di dignità.
Franca Viola
Nasce ad Alcamo, in Sicilia, il 9 gennaio del 1947.
Il 26 dicembre 1965 all’età di 17 anni, viene rapita dall’ex fidanzato Filippo Melodia, e, tenuta rinchiusa per otto giorni, viene da questi violentata.
Filippo Melodia, peraltro, è imparentato con il boss mafioso Vincenzo Rimi.
Nel caso di Lia Pipitone e Lea Garofalo emerge un tradimento che proviene dalle loro famiglie che avrebbero dovuto proteggerle e che, invece, al contrario, le rifiutano, perché non accettano il loro stile di vita ritenuto in conflitto con le regole e i riti mafiosi.
Nel caso di Gelsomina Verde, una ragazza che faceva molto volontariato, la condanna a morte nasce dal suo ex fidanzato entrato in un giro di camorra.
Il coraggio e la famiglia hanno una grande importanza.
Infatti, nel caso di Franca Viola, appare evidente che non è vittima di un atteggiamento patriarcale grazie alla sua forza d’animo e al suo coraggio, ma grazie anche alla sua famiglia, che, le ha dato il supporto necessario, condividendo il suo rifiuto al matrimonio riparatore.
Secondo la legge italiana dell’epoca, il rapitore poteva evitare il carcere grazie al cosiddetto matrimonio riparatore, previsto dall’art. 544 del Codice Penale.
Franca Viola ha il coraggio di dire no, rifiutando il matrimonio riparatore.
Questo suo rifiuto costituisce un fatto straordinario perché è la prima donna italiana a scegliere, contrariamente a quanto sino a quel momento accaduto, di denunciare e affrontare pubblicamente un processo.
La sua vicenda, per la straordinarietà del suo rifiuto, conquista le pagine di tutti i giornali dell’epoca e l’attenzione dell’opinione pubblica.
La sua decisione di affrontare i Giudici colpisce l’opinione pubblica perché la violenza subita non è oggetto solo di un processo che si consuma nelle aule di un Tribunale, ma diviene stimolo per avviare una discussione.
Una discussione che investe il costume dell’epoca ancora fermo, in materia di violenze sulle donne, a principi di stampo ottocentesco ormai non più accettati in una società in continuo cambiamento.
Il caso Franca Viola, grazie al suo rifiuto, diviene occasione per avviare una vera e propria rivoluzione culturale e giuridica.
In quel periodo era possibile per un violentatore “riparare” il danno d’onore causato alla donna sposandola.
Attraverso il matrimonio, era possibile estinguere la violenza e restituire rispettabilità non solo alla donna stuprata, ma anche all’ambiente familiare.
Nel caso di Franca Viola, la legge sul matrimonio riparatore viene messa in discussione.
Grazie alla sua fermezza e all’appoggio della sua famiglia che non la lascia mai sola, la vicenda si conclude con una esemplare condanna.
Melodia é condannato a 11 anni di carcere (poi ridotti a 10).
La scelta di Franca Viola avvia una riflessione che scuote le coscienze e spinge a prendere in considerazione la necessità di un cambiamento, fondato su un maggiore rispetto della volontà delle donne.
Si parla per la prima volta pubblicamente della necessità di abrogare norme che colpevolizzavano le vittime anziché proteggerle.
Il caso di Franca Viola costituisce una importante occasione per dare forza al desiderio di cambiamento (nel rapporto uomo/donna) avvertito da strati sempre più larghi della società.
Cambiamento finalmente realizzatosi, alcuni anni dopo (il 5 agosto 1981) con l’abrogazione della norma sul “matrimonio riparatore”.
Mi avvio alla conclusione ricordando che, per proteggere tutte quelle donne che decidono di rompere i loro rapporti con le loro famiglie mafiose, è stato attivato il progetto “Liberi di scegliere”, una iniziativa promossa da “Libera”.
Questo progetto consiste nell’accoglienza di donne che rifiutano le regole mafiose e che, insieme ai loro figli, vogliono vivere una vita diversa e sperano in un futuro diverso.
Le donne che aderiscono al progetto, godono di forme di protezione e vengono collocate in luoghi segreti e protetti.
Attualmente le donne che usufruiscono di queste forme di tutela sono oltre 100.
Caterina Viola
If you enjoyed this article please consider sharing it!
